Narra una storiella dell’economia americana che anni fa una ditta di dentifrici, trovandosi in crisi di vendite, abbia chiesto aiuto ai suoi dipendenti. Come vuole il mito americano, è stato uno dei dipendenti a salvare l’azienda per cui lavorava suggerendo di allargare leggermente il beccuccio del tubetto del dentifricio, in modo tale da aumentare la quantità consumata ogni giorno dagli utenti.
Non so quanto sia fondata la storiella, ma è un fatto che da un certo momento in avanti i beccucci dei tubetti di dentifricio abbiano aumentato il loro diametro interno.
Altra storiella, ma questa vera. Qualche giorno fa Chiara, trovandosi a cenare da me, mi fa notare che la CocaCola Light che le ho offerto è scaduta. Effettivamente, non avevo comperato quella bottiglietta il giorno prima (compero la bevanda solamente per lei), ma nemmeno quando si pagava ancora tutto in lire.
Questa mattina al supermercato ho fatto una piccola indagine nella corsia, a me sconosciuta, delle bibite per verificare le date di «consumarsi preferibilmente entro il…». Nel tripudio di colori liquidi degno più di un colorificio che di un reparto di bevande per il consumo umano mi sono concentrato sulle cole. Le date entro cui è preferibile consumare tutte quelle bevande, inclusa la Pepsi, vanno dai dieci ai dodici mesi, con una sola eccezione, la CocaCola, la cui data ultima di consumo preferibile si aggira attorno agli otto mesi.
«È per garantire una miglior qualità del prodotto» risponderebbe probabilmente l’addetto PR della CocaCola se venisse interpellato. A parte una mia limitazione cerebrale che mi impedisce di immaginare come possa peggiorare ulteriormente una CocaCola, Light o classica che sia, mi chiedo come mai la CocaCola sia l’unica tra le cole ad avere una vita di scaffale (shelf life, per i manager rampanti) così bassa.
Come dice Andreotti, a pensar male si commette peccato anche se si rischia di aver ragione, ma a me questa cosa della scadenza così breve puzza un po’…
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